Sono chirurghe a tutti gli effetti, con titoli e relative specializzazioni, ma spesso vengono relegate ad attività ambulatoriali o di reparto. Coloro che arrivano in sala operatoria non sempre svolgono il ruolo di primo chirurgo, in alcuni casi lo sono solo per semplici interventi.
È questo il quadro che emerge dallo studio promosso da Women in Surgery Italia e pubblicato sulla rivista Updates in Surgery. Sono state coinvolte nella ricerca 1800 chirurghe, tra specializzande e professioniste, con tanto di formazione all’estero e qualifiche post-specializzazione. In effetti, una platea molto preparata e che non ha nulla da invidiare ai colleghi maschi.
Purtroppo, nonostante il target così elevato di formazione, il 35% abbandona l’attività chirurgica dedicandosi alle prestazioni ambulatoriali. È emerso, dallo studio, un fenomeno di sotto-utilizzo in sala operatoria di queste professioniste. Il 50% delle chirurghe si occupa di attività diverse, anche se la volontà principale è quella di lavorare in sala operatoria.
Inoltre, non mancano le condotte discriminatorie. Il 61% afferma di essere trattata in “modo diverso” a causa del genere. Invece, il 47%, ritiene di avere “meno possibilità di essere promosso”. Le chirurghe che lavorano negli ospedali italiani intervengono come primo operatore nell’8,4% dei casi ad alta complessità e nel 17% in quelli a bassa complessità.
La situazione resta, in linea generale, di netto svantaggio per le professioniste della chirurgia che lamentano anche meno ore di tutoraggio rispetto ai colleghi uomini.
gc